Visse tra il XIII° e XIV sec. Era originario di Lampsaco, città dell’Asia Minore, e si ritirò sul Monte Gano dove vivevano molti asceti. Li fu fatto monaco col nome Massimo da un certo virtuoso ieronda Marco. Da lui imparò gli elementi della società monastica. Dopo la dormizione del suo ieronda venne in Macedonia sul monte Papichion dove trovò compagnia di santi padri. In seguito partì alla volta di Costantinopoli per riverire i suoi santi templi e monasteri. Rimase parecchio tempo presso il monastero della Tuttasanta delle Vlacherne in digiuno, veglia e preghiera. In fine parti per Salonicco e dopo aver venerato san Dimitri mirovlita raggiunse il monastero della Meghisti Lavra sull’Athos.
Ebbe una apparizione della Madre di Dio che lo fece salire sulla cima del Santo Monte “per ricevere la grazia del Santo Spirito in base ai suoi agoni (esercizi ascetici) e in concordia con i suoi desideri”; e cosi avvenne. Secondo l’ordine della Madre di Dio iniziò ad abitare sulle pendici del Monte Athos “per diventare maestro e guida di molte anime”.
Attento a consolidare dentro di lui l’umiltà che custodisce perennemente nell’uomo la grazia del Santo Spirito, San Massimo fingeva di essere nell’errore e di essere sciocco. questo lo portava a bruciare le capanne di paglia che di volta in volta costruiva per abitarci. E’ da questo fatto che prende il soprannome di brucia capanne in greco kavsokalivis. L’opinione che fosse in preda all’errore fu confutata da San Gregorio il Sinaita, che discusse con lui quando visitò il Monte Athos constatando la sua santità.
San Gregorio lo pregò allora di smettere i suoi spostamenti e di rimanere in un luogo determinato per giovare anche ad altre anime.
Molti miracoli, previsioni, interpretazioni e altre manifestazioni carismatiche vengono riportate nelle sue estese biografie che scrissero in collaborazione il metropolita Teofane di Periteorio, lo ieromonaco Giovannino Konkilas, San Nifon il Kafsokalivita e lo ieromonaco Makarios di Makri.
San Massimo si addormento all’età di 96 anni, il 13/I/1320, e nessuno ha mai conosciuto dove si trovano le sue sante reliquie.



Il prezioso dialogo tra San Massimo e San Gregorio

Quando San Gregorio il Sinaita incontrò San Massimo gli rivolse questa domanda: “Ti prego, venerando padre, possiedi la preghiera spirituale?
Ed egli gli rispose: “Mi è stata accordata fin dalla mia giovinezza e non voglio nasconderti questo favore insigne. Io nutrivo, venerando padre, più fede e amore di quanto non saprei dire verso la nostra Purissima Sovrana, la Madre di Dio, e le domandavo con lacrime di ottenere per me la grazia della preghiera. Un giorno in cui mi trovavo, secondo la mia consuetudine, nel tempio della Panaghia (Tuttasanta), rivolsi una volta ancora alla Madre di Dio, con lacrime, la medesima supplica. Baciando con amore la sua icona intemerata, sentii di colpo un calore fortissimo nel petto e nel cuore; ma, invece di bruciarmi, esso mi rinfrescava come fosse rugiada; mi riempiva di dolcezza e mi ispirava una profonda compunzione. A partire da quel momento, padre, il mio cuore si mise a dire interiormente la preghiera. Allo stesso modo, il mio pensiero ed il mio intelletto conservano in se stessi il ricordo del mio Gesù e della mia Theotokos (Madre di Dio), ed esso mai ne è venuto meno. perdonami.”

Allora il Sinaita disse: “E mentre dici la preghiera, padre santo, ti accade di avere un rapimento, un’estasi o qualcun’altro dei fiori della preghiera e dei frutti dello Spirito?
Il Santo rispose: “E’ questo, padre, che mi ha fatto correre al deserto e cercare senza posa il silenzio della solitudine, per cogliere in abbondanza il frutto della preghiera, voglio dire un amore appassionato di Dio e il rapimento dell’intelletto verso il Signore.”

“E tu possiedi questi doni? Dimmelo, ti prego.” Gli chiese Gregorio
Sorridendo Massimo disse “Dammi qualcosa da mangiare, e non indagare oltre sui miei errori.”
Allora Gregorio rispose: “Potessi entrare nei tuoi stessi errori, padre santo! Ma dimmi ancora, ti prego, ciò che il tuo intelletto vede con i suoi occhi spirituali durante il rapimento. Gli è ancora possibile far sgorgare dal cuore la preghiera?”
Il Santo rispose: “Certamente no, padre. Quando il Santo Spirito penetra nell’uomo di preghiera, allora la preghiera si ferma, perché l’intelletto è interamente assorbito dalla presenza del Santo Spirito, e non gli è più possibile esercitare le sue facoltà. Si sottomette interamente al Santo Spirito, che lo porta dove vuole, che sia nel cielo immateriale dell’inesprimibile luce divina, o in qualche altra prodigiosa contemplazione, o in quella suprema felicità che è il dialogo familiare con Dio. Poiché è secondo il suo beneplacito che il Paraclito accorda la sua consolazione ai suoi servi, a ciascuno secondo che ne sia degno.
Io penso, padre santo, alle visioni dei profeti, e più ancora a quelle degli apostoli. Esse erano certamente effetto dell’illuminazione della grazia dello Spirito, eppure gli altri uomini consideravano tutto questo come un errore e come ebbrezza, e lo disprezzavano. E questo anche quando li udivano affermare: “Ho visto il Signore seduto su un trono elevato e altissimo” (Isaia. 6,1). Allo stesso modo il protomartire Stefano: “Ho visto Gesù seduto sul trono della divinità, nelle altezze, alla destra del Padre” (Atti. 7,55-56). Mi stupisco di vedere ancora oggi una simile incredulità riguardo alle visioni di cui alcuni godono, ora che la grazia dello Spirito è stata effusa sui fedeli, come dice Gioele: “Io effondo il mio Spirito su ogni carne” (Galati 3,1). Sì, oggi lo Spirito Paraclito ci è donato dal Cristo. Per questo lo Spirito si impadronisce del nostro intelletto, non per fargli conoscere ciò che è l’oggetto abituale del suo pensiero, cioè gli esseri creati, ma per fargli conoscere ciò che è superiore al mondo creato, ciò che riguarda la divinità e Colui che è, Dio stesso, che mai occhio corporeo ha visto, verso il quale mai cuore terrestre è salito (I^ Corinti 2,9). Ascolta un pensiero che mi viene alla mente: allo stesso modo che lontano dal fuoco la cera non è che cera, ma, se la si avvicina al fuoco, esso se ne impadronisce, la liquefà e l’infiamma, esattamente come esso è, ed essa non può resistere, ma anzi s’infiamma con il fuoco e diviene interamente luce, pur restando cera; così, credimi avviene alla capacità dell’intelletto la medesima cosa che alla cera. Finché esso resta nei limiti della natura e alla sua capacità ordinaria; ma se il fuoco della divinità, cioè il Santo Spirito stesso, entra in contatto con esso, allora è afferrato dalla potenza dello Spirito, s’infiamma con il fuoco della divinità, i suoi concetti di disgregano, ed è interamente assorbito dalla luce divina e diviene interamente splendente luce divina.

Avendolo udito questo, san Gregorio gli fece osservare: “Senza dubbio, caro Kafsokalivita; ma esistono fenomeni di questo genere cui è possibile dare il nome di errore”
Il santo riprese: “Sì, ma altri sono i segni dell’errore e altri quelli della grazia e della verità dello Spirito. Ecco quelli dell’errore: quando è il maligno a entrare in contatto con noi, mette nell’intelletto il turbamento, lo rende selvaggio e indurisce il cuore, ispira la viltà e la disperazione, diffonde le tenebre sui pensieri, rende cattivo lo sguardo, turba il cervello, consegna il povero corpo al tremito; fa apparire davanti agli occhi il fumo rosseggiante dell’errore, e non quello che diffonde una luce chiara. Fa uscire l’intelletto da se stesso e lo rende demoniaco. Fa uscire dalla bocca parole sconvenienti e bestemmie. L’uomo non è più che irritazione e collera. In lui non vi è più né umiltà, né preghiera, né vere lacrime; continuamente trae vanto dalla sua virtù e se ne glorifica. Resta rinchiuso in se stesso, finché diventa insensato e giunge alla perdizione. Da questo errore del maligno, padre santo, il Signore ci liberi. Quanto ai segni della grazia, eccoli: quando il Santo entra in contatto con noi, ricompone l’intelletto e gli dona saggezza, umiltà e misura. Mette nell’anima il pensiero della morte, del giudizio, dei nostri peccati, e anche del castigo del fuoco. Dona al cuore la compunzione perfetta, l’afflizione e i pianti; rende lo sguardo più dolce, e le lacrime scorrono dagli occhi. E più il contatto è stretto, più l’anima trova dolcezza e consolazione nella preziosa passione del Cristo e nel suo immenso amore per gli uomini. Pone nell’intelletto contemplazioni elevatissime e fuori dalle prese dell’errore: in primo luogo, quella dell’incomprensibile potenza creatrice, che ha creato dal nulla l’universo, che ne assicura la coerenza e lo regge con la sua provvidenza; l’oceano inconcepibile e incircoscrivibile, inafferrabile e inaccessibile della divinità in tre persone, l’Essere al di sopra di ogni essere. E così lo illumina con lo splendore della conoscenza divina. E quando l’intelletto è rapito nel Santo Spirito da questa inaccessibile luce divina, è illuminato da questa luce divina e splendente. Ciò rende il cuore pacificato, e colui che ha ricevuto tali doni ottiene nell’intelletto, nella ragione e nello spirito una felicità e una gioia ineffabili.”

Tale era san Massimo stesso, in tutta la sua persona, tenendosi sempre in spirito nelle ragioni superiori, avendo in sé il frutto dello Spirito, che è, secondo il divino Paolo, “gioia, pace, loganimità, benevolenza, bontà, carità, comprensione e umiltà.” (Galati 5,22).
Questo colloquio provocò nel maestro dell’hesychia e della preghiera, san Gregorio il Sinaita, una profonda emozione. Le parole del santo lo avevano messo come fuori di sé ed egli si sentì colto, nei confronti di lui, da una viva ammirazione. E non ne parlò più da allora se non come di un angelo in terra, non più uomo.




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